la narrazione "classica" della sindrome dell'impostore
Probabilmente hai già sentito nominare la sindrome dell’impostore perché viene spesso menzionata nei media. In breve, si tratta della convinzione di non meritare i risultati positivi raggiunti. Chi ne soffre vive un costante senso di inadeguatezza e sottostima sistematicamente le proprie capacità. Di conseguenza attribuisce ogni suo successo alla fortuna o al fatto di essere stato sopravvalutato dagli altri.
I pensieri tipici di chi ha la sindrome dell'impostore


Le caratteristiche psicologiche
La maggior parte delle ricerche si sono concentrate sulle caratteristiche psicologiche delle persone che hanno la sindrome dell’impostore. In particolare queste persone sono state descritte dalla ricerca come perfezioniste e insicure.
Secondo questa narrazione, non riuscire ad riconoscere i propri meriti deriverebbe dalla tendenza ad ignorare le evidenze del proprio talento. Per esempio, una persona con la sindrome dell’impostore può sentirsi mediocre anche dopo aver vinto un concorso. Nonostante i traguardi raggiunti, non si sente mai abbastanza.
Pur non volendo mettere in dubbio le teorie che associano la sindrome dell’impostore al perfezionismo e alla bassa autostima credo che questa sia solo una parte della storia.
CONTRO-NARRAZIONE: LA CULTURA DEL GENIO
Secondo la filosofa Shanna Slank, quando si parla della sindrome dell’impostore si tende a trascurare il ruolo che il contesto culturale gioca nella sua formazione. Infatti, sembra essere più diffusa in contesti in cui prevale la cultura del genio, ovvero in cui le persone considerano l’intelligenza come un dono innato, immutabile. Se sei bravo e hai successo, è perché hai talento naturale. In opposizione quindi con la prospettiva che le abilità siano apprendibili e le persone possano crescere nel tempo.
Il mito del talento
La cultura occidentale tende a mitizzare il talento, ce lo dimostrano le narrazioni popolari. Ci piacciono i film in cui i protagonisti hanno doti uniche, magari da affinare con l’esperienza, ma comunque innate. I film sui supereroi ne sono un esempio. Anche Iron Man, che non è nato con i superpoteri come la maggior parte dei suoi colleghi, deve comunque il successo alla sua genialità che ne compensa i limiti fisici.
Amiamo anche le narrazioni che descrivono la crescita di un personaggio eppure, anche in questo caso, raramente si tratta di un percorso “normale”. Karate Kid? Con qualche mese di metti la cera, togli la cera passa da ragazzino-che-le -prende-sempre a prodigio delle arti marziali. Quindi, ci va bene che i personaggi crescano purché lo facciano in tempi record. L’importante è continuare a suffragare la tesi che comunque ci vuole talento.
Invece nella vita reale il raggiungimento del successo non segue traiettorie lineari come nei film. La maggior parte delle persone ottiene risultati grazie all’interazione di diversi fattori: abilità personali ma anche molto impegno e una certa dose di fortuna.
Talento vs impegno
Inoltre, siamo portati a pensare che talento e impegno siano degli aut aut. Se hai talento avrai meno bisogno di impegnarti per raggiungere lo stesso risultato di una persona non talentuosa. Se Daniel LaRusso fosse stato un ragazzino normale per arrivare a vincere il torneo di karate avrebbe dovuto allenarsi anni, non mesi. E in quel caso sarebbe stato molto più probabile per lui sviluppare la sindrome dell’impostore.
Penso si sia capito dove voglio arrivare. In una cultura che mitizza il talento le persone che si impegnano molto sono portate a credere che il loro sforzo sia la prova che manca loro il talento. Il pensiero implicito è “se ho dovuto fare così tanta fatica per arrivare fin qui è perché non sono così brava e prima o poi anche gli altri se ne accorgeranno”.
Non è un caso che la sindrome dell’impostore sia diffusa in contesti in cui è difficile decretare cosa porta al successo, come l’ambito accademico. Come si ottiene una cattedra universitaria? Come si arriva a ricevere i finanziamenti per svolgere uno studio importante? È un percorso tortuoso in cui servono intelligenza, ma anche studio, fortuna e qualche spintarella dalle persone giuste. Allora chi raggiunge il successo può dubitare delle proprie capacità perché è difficile valutare quanto peso hanno avuto il talento e quanto tutti gli altri fattori.
Conformismo e solitudine
C’è un altro aspetto da considerare. Nei contesti in cui prevale la cultura del genio, le persone tendono inconsciamente a conformarsi ad essa mettendo in risalto le proprie abilità anziché l’impegno. Ogni persona conosce il suo percorso, sa quanto è stato accidentato e quanta fatica ha richiesto. Invece, la storia degli altri è opaca. Delle altre persone sappiamo solo ciò che decidono di mostrare, che spesso corrisponde ad una versione smaltata e lucidata della verità.
Come scrivono Maura Gancitano e Andrea Colamedici:
“Quella in cui viviamo è una società in cui ciascuno è costretto ad avere un’immagine pubblica, inautentica, che è costretto a costruire e che potrebbe essere la sua salvezza o la sua rovina. Basta poco per distruggerti o darti il successo: è sufficiente una sola performance.”
Tutto ciò aumenta la probabilità di sentirsi i soli che faticano a stare al passo in un ambiente in cui tutti gli altri sembrano brillare di luce propria.
E questo contribuisce a percepirsi come impostori e a credere di non meritare realmente di trovarsi lì, nel gruppetto dei primi della classe.
L’ALTERNATIVA alla cultura del genio: LA CULTURA DELLA CRESCITA
Se nella narrazione della sindrome dell’impostore consideriamo anche il ruolo della cultura allora coloro che ne soffrono appaiono meno irrazionali. Si tratta infatti di persone che in qualche modo sono consapevoli che il loro successo non dipende interamente dalle loro abilità innate.
Ciò non significa che aspetti personali come bassa autostima o perfezionismo non siano rilevanti, semplicemente sono una parte del fenomeno. Personalmente sono convinta che si possa lavorare sugli aspetti individuali e sugli aspetti culturali contemporaneamente. Una parte della storia non esclude l’altra. In questo caso, la narrazione che collettivamente dovremmo riscrivere è proprio quella della cultura del genio e della mitizzazione del talento.
L’alternativa è promuovere una cultura della crescita che valorizzi l’apprendimento e che consideri le abilità acquisibili. Una cultura, quindi, che non fa coincidere il valore personale con il talento ma lo consideri come uno dei tanti pezzi che compongono il puzzle.
Promuovere una cultura in cui c’è spazio per apprendere significa anche considerare i fallimenti e gli errori come parte naturale di un processo che è tutto fuorché lineare. E infine, favorire una cultura dell’umiltà in cui si possa dire che sì, il talento conta, l’impegno conta, ma a volte serve anche una certa dose di fortuna. Ammetterlo è un segno di onestà intellettuale, non di impostura.
Bibliografia per approfondire
Sulla narrazione “classica” della sindrome dell’impostore: https://www.ipsico.it/news/sindrome-dellimpostore-cose-e-come-affrontarla/
Un punto di vista alternativo: https://doi.org/10.1007/s10677-019-09984-8 Shanna Slanck. (2019). Rethinking the Imposter Phenomenon, Ethical Theory and Moral Practice.
La citazione è tratta da: Gancitano, M. & Colamedici, A. (2018). La società della performance. Come uscire dalla caverna. Tlon.